Enclave
o la tecnica dell'assedio
Ho cercato di scrivere a lungo, non riuscendoci, finendo col metter tutto in uno spazio stretto e angusto, dove quello che volevo dire è finito sepolto sotto strati di sogni e riflessioni. Tempo fa ho scritto del cuore, della sua materialità e densità – questo episodio riparte da lì, qualche centimetro sotto terra.
Sarò onesto, da qui in poi non so bene in che direzione volgere. Ci sono cose di cui vorrei parlare e che ho in mente da un po’, ma per adesso si tratta di elementi sparsi, ancora devo capire che sentiero prendere. A quel punto dovrò percorlo così tante volte da piegare i fili d’erba fino a farli scomparire, lasciando posto alla terra nuda e ai desideri. Nel frattempo quello che ho fatto è stato essere devoto a incensi e candele, alla casa e la sua aurea gialla, cercando un po’ di conforto. E così è stato, vi ho trovato abbondanza e significato.
Proprio a riguardo c’è questa poesia che mi è venuta spesso in mente, La Melagrana di Eavan Boland, in cui vengono coperti spazi domestici e luoghi infernali. È una poesia che si prende il suo tempo, che riesce a districare tante di quelle riflessioni intorno al cuore, quasi svelando il trucco della poesia stessa. E dice così:
Ci sono posti in letteratura in cui chi scrive va e viene, l’inferno è uno di questi; è lì che Dante è finito in una delle sue tante notti senza sonno. Una volta che ebbe finito, si addormentò pensando di essersi occupato di tutto, dei numeri, degli schemi, della fine e dell’inizio. Attraverso l’inferno – l’inizio – si è fatto strada verso i piani superiori del paradiso, il luogo perfetto ospitato nel cielo, e lì, la fine. In letteratura questi spazi formalizzati tendono ad essere affollati e consumati dall’interminabile viavai, al punto da diventare quasi non-luoghi, perdendo tutte le loro caratteristiche spaziali.
L’inferno sembra essere una preoccupazione universale. Un luogo a cui tendere o da attraversare, quasi un'ossessione, un sedimento in fondo alla mente; probabilmente è per questo che è così accessibile nonostante sia comunemente descritto e ritratto come un territorio squallido e irregolare. Se penso al corpo come a un territorio geografico – e politico – l’inferno si relaziona ad esso come un’enclave, una terra che non mi appartiene ma che è dentro di me. Oltre il confine, senza bisogno di assedio, l’inferno è mio.
Luogo da attraversare per poter recuperare i propri desideri, l’inferno ha a che fare col tempo, la mortalità, il tracciare un percorso con un inizio e una fine – un pozzo che raccoglie pioggia, lacrime e miti. Forse Dante quando era nella selva aveva preso una via secondaria, un percorso battuto da qualcun altro prima di lui, magari una scorciatoia seguita da Orfeo per far prima, un sentiero eroso dall’andirivieni di passi pesanti. Scrivere riguardo e intorno all’inferno significa mettere in scena una tensione, un’urgenza, la necessità di andare a collocare e misurare le proprie paure; riguarda i desideri, il dirli ad alta voce, il raccontare una storia e tutte le storie. Dietro una porta aperta, l'inferno è ventoso, turbolento, pieno di tempo perso e guai.
C’è un’altra poesia che mi viene in mente e a cui sono affezionato, Risotto ai carciofi di Mariá Teresa Andruetto – che mi ha fatto conoscere la mia amica Maria P. e che ho tradotto in italiano da una sua traduzione in inglese dallo spagnolo. Fa più o meno così:
Lo spazio domestico si stringe ancora di più sul cuore, sul contenuto di una padella – Cerere è andata a preparare il pranzo a Persefone, dimenticandosi che non vive più lì – e si fa esponenzialmente più profondo, quasi siamo al cospetto di Lucifero a tentar di sciogliere il lago di ghiaccio con dei cucchiai di brodo. La poesia ha una capienza infernale, la capacità di distillare un fuoco, di dispiegare e approfondire; vuole raggiungere il cuore, ma per farlo non basta appoggiare la mano sul petto bensì bisogna scendere all’inferno. Un processo che ha a che fare con la terra che viene erosa sotto il peso del desiderio ed è simile a un sogno.
Se si sovrapponessero tutte le versioni scritte dell’inferno, il paesaggio ottenuto risulterebbe oscuro e familiare come può esserlo la propria camera da letto nel buio del sonno e della notte. Qui una fune si srotola e il tempo si fa verticale e profondo, un imbuto, una fossa, il delta di un fiume che si apre sul mare; finalmente la pressione sanguigna si abbassa e lo scrittore si rimpicciolisce in una pozza di stanchezza.
Ora si è addormentato.




